Le big tech pensano in grande sulle energie rinnovabili

Sono energivori ma vogliono limitare l’impatto dei loro consumi sull’ambiente: ecco perché la storia d’amore tra colossi tech e rinnovabili è appena iniziata

“Capovaro, posso andare?”, chiedeva l’ineffabile contessa Mazzanti Serbelloni Viendalmare al dirigente della società di cui era “grande azionista”. La scena, per chi non avesse familiarità con la saga del ragionier Ugo Fantozzi, è tratta del “Secondo tragico” film della serie e riguarda il varo di una nave. Altri tempi, pre-tecnologici e forse anche pre-ecologici.

Noi ce lo immaginiamo un po’ così – con tutto il grande rispetto che si deve alla sua eminente figura – l’amministratore delegato di Amazon Jeff Bezos, in piedi sulla cima di una turbina eolica in Texas, a più di 90 metri da terra, mentre solleva una bottiglia di champagne e la rompe, nel tipico gesto inaugurale, contro il poderoso impianto.

“Stava battezzando”, ci ricorda il Financial Times, “Amazon Wind Farm Texas, un impianto vicino alla città di Snyder”: era il 2017 e il battesimo del parco eolico di Bezos, trasmesso su Twitter, ha rappresentato un punto di svolta per l’azienda, segnando un balzo degli investimenti nelle energie rinnovabili.

I colossi tech e le energie rinnovabili

Non solo Amazon: aziende tecnologiche del calibro di Google, Microsoft e Facebook, ci dice sempre il Financial Times, “sono diventate i più grandi acquirenti di energia pulita del mondo”. Il che non è male: ai loro data center occorre tantissima elettricità – basti pensare che il consumo combinato di Amazon, Google, Microsoft, Facebook e Apple supera i 45 terawatt-ore all’anno, più o meno quanto la Nuova Zelanda – e che preferiscano le rinnovabili alle fossili non può che far bene al nostro già provato pianeta. Tanto più che la quantità di energia fagocitata è destinata ad aumentare ancora, considerata la sempre maggiore potenza di calcolo richiesta dall’intelligenza artificiale e dal machine learning.

La domanda delle aziende plasma l’offerta

Sono giganti, lo abbiamo detto. E se da una parte, con le loro dimensioni, si sono guadagnati l’attenzione dei legislatori, dall’altra hanno saputo sollecitare un cambiamento all’interno dell’industria energetica, migliorandone il focus sulle fonti “pulite”. D’altronde, quando i pesi massimi tra i tuoi clienti ti chiedono, per dire, latte scremato – e te ne chiedono in quantità fenomenali – non è che puoi continuare a concentrare i tuoi sforzi sul latte intero: ti converrà far convergere idee, progetti, soldi e risorse nello sviluppo di soluzioni atte a produrre proprio latte scremato. Magari orientando in questo senso il resto della domanda. La Renewable Energy Buyers Alliance evidenzia come gli acquisti aziendali di energia pulita negli Stati Uniti siano saliti al livello record di 10,6 gigawatt l’anno scorso, l’equivalente della capacità dell’intera flotta eolica offshore del Regno Unito.

I big della tecnologia contro i cambiamenti climatici

La lotta ai cambiamenti climatici, per i colossi tech, è anche questione di reputazione: nell’attuale scala di valori più o meno condivisa presso governi e opinione pubblica, fa guadagnare punti, diciamo. Meglio ancora se i top manager la conducono con convinzione. In casa Microsoft, per esempio, molto fa l’influenza del fondatore Bill Gates, con il suo impegno filantropico per l’ambiente. Microsoft, ci dice l’FT, punta a essere “carbon negative” entro il 2030. Attenzione: “Negative”, non “neutral”. Ti chiederai che differenza c’è: “neutral” vuol dire che faccio cose – per esempio, pianto alberi e contrasto il consumo di suolo e la deforestazione – che mi consentono di tirare via dall’atmosfera la medesima quantità di anidride carbonica che io vi immetto; “negative” vuol dire che tiro via dall’atmosfera più anidride carbonica di quanta ve ne immetto. L’azienda fra l’altro addebita a ogni team il costo delle sue emissioni, il che incentiva il personale a produrne meno.

Se non è rinnovabile non ci piace

È un testa a testa con Google, commenta il Financial Times, che si è prefissata un obiettivo forse addirittura più ambizioso: far funzionare tutti i suoi data center con elettricità prodotta da fonti di energia idroelettrica, eolica e solare h24 entro il 2030. D’altro canto, l’amministratore delegato di Google Sundar Pichai è rimasto segnato dagli incendi che hanno devastato la California lo scorso anno, oscurando per giorni i cieli della Silicon Valley. Amazon è scesa in campo dopo le altre e ne ha di strada da fare per mettersi in pari, considerando che ai consumi dei data center unisce quelli per la gestione dei magazzini, per i trasporti e per le consegne. In ogni caso, ciascuna di loro sente addosso la pressione non solo dell’opinione pubblica, ma anche dei suoi stessi dipendenti.

I dipendenti chiedono maggiore impegno

Nel settembre del 2019, ci ricorda l’FT, centinaia di lavoratori di Google, Amazon e Microsoft hanno scioperato per il clima in concomitanza con le manifestazioni guidate da Greta Thunberg a New York. Il punto è che i dipendenti di ciascuna azienda guardano quello che fanno le altre e pretendono che la loro si metta come minimo in pari. Questo crea una competizione che spinge le società a essere più ambiziose e ad andare oltre.

Due, ad oggi, le aree critiche su cui i lavoratori mettono l’accento: i servizi che le loro aziende forniscono alle compagnie petrolifere e del gas, le quali utilizzano l’intelligenza artificiale per migliorare l’estrazione dei combustibili fossili; e la loro attività di lobbying, con solo il 4% della spesa riportata da Apple, Alphabet, Amazon, Facebook e Microsoft per il clima durante il periodo 2019-2020, secondo un rapporto di InfluenceMap citato dall’FT.

Le big tech nel business dell’energia?

Alla luce dell’enorme appetito energetico fin qui evidenziato, secondo il Financial Times l’ingresso nel settore dell’energia potrebbe essere solo questione di tempo. Recentemente Facebook – al terzo posto a livello globale per acquisti aziendali di energia pulita – ha acquisito la sua prima partecipazione diretta in un progetto solare nella contea di Andrews, in Texas, che ha iniziato a funzionare l’anno scorso. Nuove frontiere del business? Vedremo. Di sicuro, un’ulteriore buona ragione, per ogni investitore piccolo o grande che sia, per tenere il comparto tech sotto osservazione.

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