Quando il lavoro diventa una droga

Stanno in ufficio notte e giorno e non staccano neanche a casa: i workaholics sono veri malati. Riconoscere questa dipendenza e uscirne...

Workaholic. Workaholic, ovvero «alcolizzato da lavoro». Termine inventato nel 1971 dallo psicologo americano Wayne Edward Oates.

Il 20% dei lavoratori nel mondo lavora troppe ore al giorno (dati Ilo, International Labour Organization, agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di diritti umani sul tema del lavoro).

«Un individuo che ha un bisogno compulsivo di lavorare, che lavora a un livello eccessivo e ha difficoltà a ridurre il ritmo di lavoro. Questo genere di impulso sovradimensionato nel lavoro è sovente causa di stress, difficoltà interpersonali e problemi di salute» (definizione del soggetto workaholic secondo l’American Psychological Association).

Il workaholism è una malattia socialmente tollerata e difficilmente riconosciuta come tale. Solo dal 2007 è inserita nel Dizionario dei termini psicologici dell’American Psycological Association.

Secondo la psicologa del lavoro Monica Monaco, «i dipendenti dal lavoro sono attratti dalla loro attività anche in casa o in vacanza e difficilmente riescono ad ammettere di aver un problema che va affrontato seriamente. Poiché spesso i primi a segnalare il disagio sono i familiari, una diagnosi precoce potrebbe iniziare anche nell’ambito del trattamento dei problemi familiari o di coppia. Affrontare questo tipo di problema significa ridimensionare i tempi e gli spazi da dedicare alla vita lavorativa, riscoprendo altre attività, spesso meno remunerative, talvolta altrettanto gratificanti, mediante le quali è possibile cominciare a prendersi nuove soddisfazioni e disegnare nuovi obiettivi con altrettanta creatività».

I malati di workaholism hanno il 40% in più di probabilità di divorziare (studio dell’University of North Carolina).

Per identificare un workaholic non bastano il numero di ore passate alla scrivania. È indicativo il superamento del confine tra la passione per il proprio lavoro e la necessità compulsiva di lavorare, che si trasforma in assuefazione. Spesso chi soffre di questa sindrome si vergogna della propria dipendenza e si nasconde: resta in ufficio ma dice ai familiari di andare in palestra o di uscire a fare l’aperitivo.

Lo psicologo Andrea Castiello d’Antonio, autore del saggio Malati di Lavoro (Cooper, 2011): «È un’attività autoimposta di persone per le quali conta solo fare e non pensare, essere attivi e non contemplativi. Uno stile di vita anfetaminico che si trasferisce nei weekend. Un mio paziente finiva di lavorare tardi il venerdì, il sabato mattina all’alba prendeva un aereo per l’Africa. Poi una jeep lo portava di corsa nel deserto in uno di quei Camel Trophy che un tempo andavano di moda. Passatempo pericoloso: una volta tornò con tutti i denti rotti, ma era contento».

In Corea del Nord il governo si è inventato la “Giornata della procreazione” per costringere i lavoratori a tornare a casa la sera: una volta all’anno i manager spengono le luci degli uffici alle 19 e spediscono a casa i dipendenti per passare la serata con la famiglia.

Il Paese in cui si lavora più ore all’anno è la Corea del Nord: 2.313 in media a persona. Sugli stessi livelli Singapore e Hong Kong. Molto più bassi i dati europei: gli inglesi lavorano 1.673 ore, i francesi 1.552. Noi italiani passiamo a lavorare 1.816 ore ogni anno (dati dell’International Labour Organization).

Ma una volta stabilito che si è dipendenti dal lavoro, cosa occorre fare? Andrea Castiello d’Antonio: «Prima di tutto ridurre, progressivamente, le ore della giornata dedicate al lavoro. Bisogna mantenere la giusta distanza tra individuo e azienda. E in questo non aiuta certo la diffusione dei telefoni cellulari e di internet, che annullano questa distinzione, rendendoci connessi 24 ore su 24». Come primo intervento di prevenzione, bisogna quindi delimitare con precisione gli spazi e i tempi del lavoro, sia a livello del singolo individuo, sia a livello dei team di lavoro.

«Uso il Backberry, uno strumento fantastico, ma letale per distruggere la vita» (Sergio Marchionne, che gira sempre con sei smartphone).

Deve essere tenuto poi sotto controllo il clima che regna sul luogo di lavoro, il livello di ansietà: l’incertezza occupazionale, il sentirsi precari può portare facilmente a una condotta workaholic. Stesso discorso per la competizione portata all’estremo, il lavoro inteso come guerra, assalto alla concorrenza.

Una volta accettato la propria condizione di workaholic, il primo passo è l’auto-aiuto, partendo dal presupposto che si abbia la motivazione per uscire fuori dalla situazione di dipendenza dal lavoro. Senza eccedere con i propositi di cambiamento, partire da un progetto tagliato sulle reali possibilità personali (per esempio porsi come obiettivo iniziale di uscire prima dal lavoro il venerdì pomeriggio piuttosto che tutti i giorni due ore prima).

«Ciò che può aiutare a realizzare i traguardi del proprio progetto è il concedersi dei piccoli regali, gratificazioni sostitutive ogni volta che si raggiunge una meta. […] Inoltre tenere un diario del proprio sviluppo, sottolineare i vantaggi e le scoperte che il nuovo stile di vita permette di individuare» (da Malati di lavoro, Cooper 2011).

I Workaholics Anonymous, struttura di auto-aiuto nata negli Stati Uniti nel 1983. Usa lo stesso metodo degli Alcolisti Anonimi: ammissione del proprio problema, condivisione, programma dei Dodici passi ecc.

Alternative ai gruppi di auto-aiuto: la psicoterapia di gruppo o la psicoterapia individuale.

«Sono talmente occupato che non trovo il tempo di lavorare» (Totò) .

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