Più spazio alle donne tra i capi

Consigli di amministrazione che diventeranno sempre più “rosa”. A volerlo è l’Ue e l’Italia ha già cominciato...

Le riserve. Quote rosa: le riserve dei posti per le donne (nel lavoro, in politica ecc.). Nel campo delle attività dirigenziali, la Commissione europea vorrebbe introdurle in tutti i paesi dell’Unione.

Quattro su dieci. Viviane Reding, vice presidente della Commissione europea e responsabile per la Giustizia, è l’autrice della proposta di direttiva che prescrive l’inclusione del 40 per cento di donne nei consigli di amministrazione delle società quotate in Borsa, entro il 2020.

L’Ue è divisa. Nove paesi dell’Unione europea, in testa il Regno Unito, si sono detti contrari alla proposta della commissaria Ue attraverso una lettera indirizzata alle autorità di Bruxelles. Le altre otto nazioni sono Olanda, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta. Svezia e Germania non hanno firmato la lettera ma sarebbero comunque contrari a una legislazione europea che fissi quote rosa. La Commissione europea comunque va avanti: la portavoce della vice presidente Reding ha detto che la proposta non è stata ancora finalizzata, ma lo sarà entro l’anno.

Le donne nei cda. Al 22 agosto scorso, le donne in Europa rappresentavano il 15,6 per cento dei consiglieri nei cda dei 353 gruppi che capitalizzano (cioè che hanno un valore in Borsa) più di 4 miliardi di euro (dall’ultimo rapporto europeo sulla diversità di genere, presentato dalla società di consulenza Egon Zehnder International). Nel 2010 erano il 12,2 per cento. In Italia sono passate dal 6 per cento dello scorso marzo, al 10,6 per cento, sempre al 22 agosto (dati Consob).

La legge Golfo-Mosca. L’Italia, in effetti, si è già mossa e non poche società si sono adeguate. Approvata nel luglio 2011, la legge Golfo-Mosca (dal nome delle due parlamentari che l’hanno proposta: Lella Golfo, Pdl, e Alessia Mosca, Pd) è diventata operativa lo scorso 12 agosto. La norma prevede che, già quest’anno, gli organi sociali delle società quotate che devono essere rinnovati, riservino una quota pari ad almeno un quinto dei propri membri alle donne. Che poi, a partire dal secondo e terzo rinnovo degli organi sociali, dovranno essere pari ad almeno un terzo, fino ad arrivare al 2022, data in cui la legge stessa fissa l’esaurimento della sua efficacia. L’obiettivo è quello di non avere più bisogno di una legge e, dal 2023, di superare il tema del genere, candidando alle cariche sociali chi ha le caratteristiche più adeguate per quel ruolo, indipendentemente dal sesso.

Meglio con le donne. Secondo uno studio della McKinsey (del 2010) le società italiane, quotate e non quotate, nelle quali è donna almeno il 20 per cento del top management, hanno ottenuto nel triennio 2007-2009 una redditività superiore alle società che hanno meno del 20 per cento di presenza femminile al vertice.

Nelle controllate dallo Stato. La legge Golfo-Mosca vale anche per le società controllate dalla pubblica amministrazione. In queste società l’operazione quote rosa sarà pienamente operativa entro il 31 dicembre.

Negli enti pubblici. La legge non vale per i vertici del settore pubblico. Sono donne:

• nelle università: il 17,6 per cento dei professori contro il 45 per cento dei ricercatori;

• nella sanità: il 12,3 per cento dei primari contro il 37,1 per cento dei medici (da un rapporto Istat del 2010).

Tra i medici. Tra i medici che esercitano la libera professione, le donne guadagnano in media circa il 30 per cento in meno dei colleghi uomini: un dato oggettivo, ricavato dall’analisi della tabella dedicata al fondo dell’Enpam, l’ente di previdenza del settore, riservato alla libera professione. Per l’anno 2010, le professioniste nella classe di età 60-69 anni, hanno dichiarato in media circa 40 mila euro rispetto ai 57 mila dichiarati dai colleghi maschi. Il risultato finale non cambia anche nelle classi d’età più giovani: tra i 20 e i 29 anni i medici uomini che fanno libera professione dichiarano circa 18 mila euro l’anno contro i 14 delle donne, tra i 30 e i 39 anni 36 mila euro contro 28 mila. Nella fascia d’età 40-49 anni la differenza va dai 55 mila euro degli uomini ai 40 mila delle donne.

Meno 16,4 per cento. Gender pay gap: è la definizione ufficiale dell’Ocse per la differenza in percentuale nella retribuzione oraria tra uomini e donne. Gli ultimi dati del 2010 indicano un divario retributivo medio nell’Unione europea del 16,4 per cento: si va dal 27 per cento dell’Estonia (e dal 25,5 per cento di Austria e Repubblica Ceca), al 2 per cento della Polonia. In Italia, stando ai dati diffusi dalla Commissione europea, la differenza è del 5,5 per cento. Ma nel nostro paese è anche molto elevata la disoccupazione femminile.

Occupate. Secondo i dati Eurostat del 2012, la quota di donne tra i 25 e i 54 anni occupate in Italia è del 63,9 per cento, circa 12 punti percentuali in meno rispetto alla media dell’Ue (considerata su tutti i 27 paesi che la compongono).

La scelta della facoltà. Le statistiche dicono dunque che in Italia esiste ancora una piccola differenza (più grande in altri paesi) di retribuzione a parità di condizioni e una differenza più sensibile di guadagno in termini assoluti (indipendentemente dalle ore lavorate o dalle mansioni). Uno studio della Fondazione Rodolfo Debenedetti ha individuato per esempio il «gap salariale nella transizione tra scuola e lavoro» analizzando un campione di giovani usciti dai licei milanesi, provenienti da famiglie ad alto reddito, figli della classe «professionale, dirigente, innovativa». Il risultato è che le donne guadagnano di meno perché spesso, al momento della scelta della facoltà, si orientano verso studi umanistico-letterari destinati a condurle verso professioni meno retribuite. Lo fanno per scelta, nonostante i brillanti risultati scolastici che permetterebbero loro di rivolgersi a indirizzi legati a professioni più redditizie, ma considerati ancora tipicamente maschili, come ingegneria o economia.

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